Translate

lunedì 6 novembre 2017

Polysocial

Una volta ottenuto un numero di telefono, inizia la ricerca. Qualcuno lo chiama stalking. Io la chiamo "intelligence". Per qualche tempo, Facebook prendeva l'iniziativa di proporre come "persone che potresti conoscere" tutte quelle di cui registrava il numero su Whatsapp. Poi qualcuno deve avere protestato, perché credo che abbiano smesso di farlo. Ma niente è perduto: basta mettere il numero di telefono completo di prefisso (con il doppio zero e non il +, mi ha precisato un amico informatico) nella casella di ricerca di Facebook, e la persona salta fuori. Se ha un profilo, naturalmente. Il giovane avvocato mediorientale che di recente ha fatto una comparsata nella commedia che è la mia vita quotidiana mi ha lasciato il suo numero di telefono. Presto ho saputo tutto di lui: data di nascita, studi pre- e post-laurea, amici, musica e film preferiti, nonché l'orientamento sessuale, che credevo di conoscere già ma a quanto pare ("interested in: women) mi ero sbagliato. 

domenica 5 novembre 2017

Molestie sessuali, trent'anni dopo

Dovrei denunciare tutti quelli che trent'anni fa hanno rifiutato le mie avances. Quei rifiuti mi hanno segnato e traumatizzato. Ne sono uscito psicologicamente distrutto. Ho perso la dignità e l'autostima. Mi sono sentito brutto, sporco, vuoto. Ancora oggi cerco di rimediare a quel danno, senza riuscirci. 

domenica 13 ottobre 2013

Trois danses de travers: Encore


Io pensavo che Eric avesse accettato la mia proposta di uscire giusto perché non aveva saputo dire di no. Mi aspettavo che la sera stessa, dopo una lunga giornata di lavoro (la sua commissione si riuniva quei giorni) mi mandasse un messaggio per annullare.  Oltretutto il messaggio che avevo mandato al mio arrivo nella città sul lago, in cui dicevo che mi sarei liberato verso le 21, è rimasto senza risposta per qualche ora.  A un certo punto, invece, mi arriva il suo:
“Ciao e ben arrivato! Dove sarai alle 21?”. 
Io ero ancora impegnato nella mia cena di lavoro. Non mi piaceva mostrare al capo che leggevo e scrivevo messaggi, né chiedergli a che ora avremmo finito, perché non volevo apparire poco professionale. Ma ho cercato di prendere un po’ di margine:
“Siamo al ristorante, non lontano dalla stazione, ma ci vorrà un po’. Se facessimo le 21.30?”    
Poco dopo abbiamo finito di cenare e il capo, una volta che abbiamo rivisto insieme il programma di riunioni del giorno dopo, si è detto stanco e pronto a rientrare. Benissimo, ero libero.  Unico problema, non arrivava nessun messaggio. Abbiamo percorso a piedi la poca distanza che ci separava dall’hotel. Questione di pochi minuti. Ho salutato il capo, ci siamo dati appuntamento a colazione. Sono salito in camera. Il tempo di sfilarmi le scarpe e già mi ripetevo: perché ho suggerito di ritardare l’appuntamento? Probabilmente Eric era pronto per uscire, ancora adrenalinico dalla giornata di riunioni, e alla prospettiva di stare un’altra mezz’ora in casa la stanchezza ha preso il sopravvento. Ho rovinato tutto. Non voleva più uscire ma non si decideva a dirmelo. Erano le 20.50. Che fare? Eccomi di fronte ad un tipico dilemma. Rilanciare con un altro messaggio? Dirgli che ero già libero? Avrei sbloccato la situazione o sarebbe stato ancora peggio? Non sopportavo l’attesa e l’inazione. A costo di fare danni, ho scritto ancora una volta per primo:
“Abbiamo finito prima del previsto! Sono già in albergo”.
Il black out che mi sembrava durare da ore - non era così – si è interrotto con una vibrazione del cellulare:
“Sarò da te tra dieci minuti. Mi aspetti in albergo o ci vediamo nel bar accanto?”.
“Scendo al bar tra dieci minuti”.

E così ho fatto. Continuavo a fantasticare sul significato del suo ultimo messaggio. Il buon senso mi diceva che “mi aspetti in albergo” significava semplicemente che l’avrei aspettato nella hall. La fantasia, però, insinuava che lui mi avesse dato la possibilità di aspettarlo in camera. Che avrei potuto aprire la porta della camera, trovarmelo di fronte, e perfino proporgli di entrare.  Ma non sarebbe stato precipitare le cose? Non era meglio andare prima a bere qualcosa, riprendere contatto, raccontarsi le novità? Conoscersi meglio, in effetti. Perché, a pensarci bene, ci eravamo visti solo due volte, per il trasloco di Oscar e poi al suo matrimonio, e sempre in compagnia di altri. Era dunque con infinito buon gusto e una certa dose di stoicismo, mi dicevo, che avevo scelto di incontrarlo giù al bar.

Vorrei fingere distacco e indifferenza. Ma la verità è quando l’ho visto comparire l’ho trovato attraente. Stava bene con i jeans e un giubbotto sportivo, molto meglio che in abito come l’avevo visto un mese prima. A dire il vero, un mese prima l’avevo visto in completo scuro alla festa di matrimonio di Oscar, ma il giorno dopo a colazione aveva un pullover di cotone, con il collo a v, che portava direttamente sulla pelle.

Andiamo a bere qualcosa in un bar di ispirazione spagnola non lontano dall’albergo, cioè dalla stazione. Gli chiedo come procede la sessione. Mi parla delle lunghe giornate al lavore che si susseguivano da diverse settimane. Neanche il tempo di mangiare qualcosa, perché in mensa si creava la fila. Le postazioni temporanee attrezzate con computer che non gli erano familiari, perché gli uffici erano occupati dallo staff in trasferta. Le mail che continuavano a piovere sul suo smartphone a tutte le ore, anche perché molte arrivavano dal Giappone e viaggiavano su altri fusi orari. Mentre parla, massaggia leggermente la parte carnosa al lato del collo,  come se parlare del lavoro gli ricordasse le posizioni scomode che si assumono davanti a una scrivania di fortuna.  Fissa per un secondo la cameriera che si allontana dopo averci servito una birra, poi si rivolge di nuovo a me. Mi chiede del rapporto a cui sto lavorando, sulla prostituzione e la tratta di esseri umani. Incontreremo alcune persone della sua organizzazione, mi ha dato lui i contatti per fissare gli appuntamenti.
-Il punto debole del nostro programma è che non incontreremo nessuna organizzazione di prostitute, dico.
-Ci sono due associazioni che vi potrebbero interessare. Una rappresenta le prostitute, un’altra si occupa di tematiche LGBT.
- La seconda si occupa anche di prostituzione? Magari di persone trans gender?, chiedo, cercando di capire l’attinenza con il mio campo di ricerca.
- No, questioni LGBT in genere.

L’attinenza non c’è e cambio volutamente argomento.
- Sai quando ti ho scritto sulla mail di lavoro? gli chiedo  – Ti ho cercato su google per avere l’indirizzo e ho scoperto che sei un esperto di comunicazione non verbale. Sono molto curioso, si tratta di linguaggio del corpo?
- Per l’email era semplice, nome, punto, cognome e il nome dell’organizzazione.

Soprattutto non abbassare lo sguardo, mi dico. Ho letto che dopo aver detto una bugia si abbassa lo sguardo - a quanto pare nessuno meglio di lui saprebbe interpretare questi segnali. Non è vero che l’ho cercato su google per trovare il suo indirizzo email. L’ho cercato per scoprire qualcosa di più su di lui. Anzi, la prima volta che l’ho fatto, poco dopo averlo incontrato, non conoscevo neanche il suo cognome. Scrivevo Eric e il nome della città, alla cieca. Poi Eric e il nome dell’organizzazione, quella la conoscevo perché ne avevamo parlato.  

Mi racconta che ha seguito una formazione e si è associato ad alcuni esperti per creare uno studio di consulenza.
- Tra i nostri clienti ci sono alcuni uomini politici. Tengo un blog su questo tema.

Ho letto il blog, ma preferisco non dirglielo. E’ interessante. Tra gli esempi di comunicazione sbagliata, c’è un manifesto di propaganda elettorale di un politico locale. Dice “Io sono pronto” e nella foto è intento ad annodarsi la cravatta. E’ tutto fuorché pronto, sembra che dica “aspettate, finisco di vestirmi e vi raggiungo”. 
Mi propone di ordinare un’altra birra, accetto. Ho sonno e vorrei andarmene. Tagliare corto, arrivare al più presto alla fine di questa serata, perché so che mi aspetta una delusione e più passano i minuti, più la delusione sarà intensa. Mi chiedo perché abbia accettato la mia proposta di vederci. Ci conosciamo appena. La cosa mi ha intrigato e incoraggiato, ma sento che le cose non vanno come avrei potuto sperare. La seconda birra arriva e la sorseggiamo lentamente, continuando a parlare.
La sua collega che incontrerò il giorno dopo, mi racconta, è una signora inglese dall’età indefinibile, ma avanzata. Presto andrà in pensione. Ha una visione di insieme sulle attività dell’organizzazione e certamente saprà darci informazioni interessanti.
Usciamo dal locale e ci incamminiamo verso il mio albergo. 
- Che terminologia usate nella tua organizzazione, dite LGBT o LGBTI?, mi chiede.
Gli rispondo che se ne è discusso, alla fine è parso più semplice parlare di LGBT, considerando tra l’altro che la T di transgender è una categoria-ombrello che può coprire anche gli I.
- Non sono d’accordo, risponde Eric, gli I dovrebbero essere considerati una categoria a parte. In un certo senso sono i più giustificati, perché si tratta di una situazione particolare dal punto di vista biologico e anatomico. 
Nel momento in cui dice “giustificati” ha un’esitazione, sembra rendersi conto che sta dicendo qualcosa di delicato. A tuo avviso io sono sufficientemente giustificato?, vorrei chiedergli, ma a questo punto non voglio sentire la risposta. Mi rendo conto che nel giro di un paio di minuti arriveremo al mio albergo, non c’è più tanto tempo per parlare ma voglio che mettiamo le carte in tavola. Sono in imbarazzo. Trattengo il respiro per una frazione di secondo, poi chiedo quello che ho in mente da un po’:
- Ma tu sei etero, giusto?
      Lui risponde subito, con un mezzo sorriso:
- Sì, perché, non sembra?
- No non volevo dire quello, era giusto una domanda.
- Sì sono etero, mi dispiace.
     Mi imbarazza il fatto che dica“mi dispiace”. Dunque è tutto chiaro, non può voler dire altro che “so che vorresti che io fossi gay, ma mi dispiace, devo deluderti”.
      Siamo già arrivati sotto il mio albergo. - Nella mia famiglia c’è molta omosessualità e molta omofobia, dice Eric con aria pensierosa.
     Mi racconta della sua famiglia. Ha un cugino gay, che sta con un uomo da una decina d’anni. Programmano di fare una cerimonia tra qualche tempo, sarà un po’ un matrimonio, un po’ un anniversario. Aveva un altro cugino, anche lui gay, ma è scomparso tanti anni fa. Si è suicidato, non reggeva la situazione in famiglia, il padre gli rendeva impossibile perché non accettava il suo stile di vita.
- E’ successo quand’ero un ragazzo, non riuscivo a spiegarmi come potesse essere morto annegato, quand’era un campione di nuoto. Ho scoperto la verità vari anni dopo. Aveva preso dei farmaci e poi si era buttato in un fiume.
     Mentre mi racconta questi fatti, vedo riaffiorare nel suo sguardo una tristezza mai del tutto dimenticata. Una parte di me si ribella. Come sempre in questi casi, mi dico: quanta sofferenza inutile, quante tragedie si potrebbero evitare se non ci fossero pregiudizi e discriminazione. Un’altra parte di me, meno idealista, pensa: accidenti a me, l’unico etero della famiglia dovevo trovare. 
Adesso mi dicono che ho la responsabilità di trasmettere il nome della famiglia … Questo fatto mi irrita. Le relazioni con le donne sono troppo complicate, soprattutto in questa città. 
Perché soprattutto in questa città? – lo interrompo. 
Non so, forse troppe donne qui sono prese dalla loro carriera … Ho avuto delle relazioni ma non ne voglio più. - A volte dopo una delusione ci vuole molto tempo prima di poter pensare di nuovo a una relazione, suggerisco. Ma non vorrei che pensi che voglio sapere i dettagli delle sue relazioni finite male. In questo momento, non voglio sapere più niente. Voglio solo andare a dormire. Ma è arrivato il mio turno di mettere le carte in tavola. Eric mi chiede: 
Prima quando mi hai chiesto se sono etero … è perché tu non lo sei? 
Esatto, rispondo, sorridendo.
  - Ma allora il mese scorso quando parlavamo di “matrimonio per tutti” ho fatto una gaffe colossale – ribatte sorridendo a sua volta. E spiega: – In realtà non ho alcun pregiudizio, ma è un mondo che non conosco tanto. Mi sembra che anche lì ci sia molta solitudine.
<-   E’ vero, è vero, è vero - rispondo io, precipitosamente, come se la mia parte nella conversazione fosse quella di ammettere senza esitazioni che dei problemi esistono in questo “mondo”. Ma allo stesso tempo mi rendo conto che rispondendo così ho parlato di me.
     E’ arrivato il momento di salutarsi. Non andare più su, mi dico. Me ne andrò senza rumore. Vado a dormire. Domani sarò già molto lontano.